“Partecipazione, un rilancio con metodi vecchi e nuovi” Paolo Serra l’Unità 28 giugno 2013

Partecipazione: vecchie e nuove forme

 La democrazia rappresentativa, quella che W. Churchill definì il peggior sistema politico esclusi tutti gli altri, è visibilmente in crisi di disaffezione in tutto il mondo. Non c’è da stupirsene visto che siamo in tempi di prolungata crisi economica, specie proprio nei paesi di più antica pratica, essendo le democrazie il frutto di secoli di vertiginoso sviluppo economico fondato su quello tecnologico e l’uso di energie a basso costo. Sempre meno cittadini partecipano alle tornate elettorali, sempre più si fanno attrarre dai flautisti magici del populismo enfatizzati dai media elettronici, mentre i ceti medi riflessivi, pur essendo anch’essi in decadenza, cercano di rispolverare  vecchie pratiche partecipative magari riverniciandole con termini anglosassoni. Nelle nostre lande la partecipazione ha sempre avuto connotazioni poco sofisticate. Negli anni della ricostruzione post bellica era più che altro rivendicazione di nuovi servizi (mitici i movimenti a Bologna  per il nuovo Ospedale Maggiore, per la Scuola Comunale dell’Infanzia, per il Tempo Pieno generalizzato). Finita negli anni 80 la spinta rivendicativa si tentò un modello di coinvolgimento tramite i Quartieri, punto d’incontro fra i cittadini e la burocrazia decentrata. Funzionò a macchia di leopardo, più che altro per la buona volontà degli attori. Fu facile preconizzarne il decadimento in concomitanza col ricambio degli attori stessi. I cittadini imposero così un loro nuovo modello: il Comitato, non più rivendicativo, ma conflittuale, pertanto sempre più settoriale e localizzato. La storia continua tuttora, con tratti a volte eccessivi.

Con il passaggio alla Città Metropolitana che dovrebbe, incredibilmente, avvenire il 1 gennaio 2014, fra sei mesi, ma i bookmaker a Londra non quotano neppure questa eventualità, si vanno proponendo in città varie iniziative: dalla democrazia deliberativa e quella elettronica, dai gruppi di animazione stradale alla gestione di aree verdi. Intendiamoci, qualsiasi forma di coinvolgimento diretto di cittadini è preziosa, se non altro per lo sviluppo di quel senso civico di cui la popolazione italiana è storicamente carente. Però occorre forte attenzione sui rischi di tali pratiche che sono sostanzialmente due: la monopolizzazione di temi o aree da parte di gruppi di interesse esclusivistici, la tentazione da parte degli amministratori eletti di scaricare decisioni rischiose o “pesanti” sui cittadini stessi evitando le relative responsabilità. Le varie forme di partecipazione, nuova o vecchia, possono affiancare e migliorare la democrazia rappresentativa, non certo sostituirla.

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“Inquinamento acustico, i palliativi non bastano” l’Unità 15 giugno 2013 paolo serra

rumore

 

Rumori temporanei e rumori costanti

Finalmente la Giunta del Comune di Bologna ha presentato il Regolamento Comunale per la Disciplina delle Attività Rumorose Temporanee, che si occupa, tra l’altro, di mettere dei tetti alle emissioni sonore delle attività di intrattenimento all’aperto che accompagnano, ormai da decenni, le notti estive. Regolamento complicato per la conflittualità degli interessi di organizzatori e spettatori contrapposti a quelli dei residenti delle zona interessate, che possono essere anche molto vaste. Mettere, giustamente, sotto controllo le attività rumorose temporanee, però, è solo una frazione, e non la più importante, del problema della vivibilità delle nostre città che, inoltre, col fenomeno dello sprawl, la famosa villettopoli, si sono espanse occupando quasi tutto lo spazio specie nelle zone di pianura. Il nostro stile di vita, infatti, assistito da un numero impressionante di motorizzazioni a scoppio sia per muoverci che per lavorare, ci sottopone costantemente ad uno stress uditivo che non ha precedenti nella storia della specie. I dati riportati dalla Mappatura Acustica del Comune di Bologna, http://www.comune.bologna.it/media/files/mappatura_acustica_bologna.pdf, sono impressionanti.  Solo 80mila abitanti stanno sotto quei 60 decibel diurni (dbA), che vengono considerati dalla OMS il limite delle zone residenziali, altri 85mila raggiungono  i 65 dbA, che sono il limite delle zone miste residenziali-produttive, e 86mila raggiungono i 70 che sono il limite delle zone esclusivamente industriali. Ma c’è di peggio, 65mila abitanti di Bologna vivono quotidianamente con un livello di 75 dbA e, addirittura, 25mila superano i 75. In sostanza almeno la metà dei bolognesi supera di gran lunga il livello di esposizione oltre il quale si aumentano i rischi di danni al sistema cardio-circolatorio, alle capacità cognitive e disturbi del sonno. I dati della esposizione notturna sono appena lievemente migliori, ma ci pensano le attività temporanee sparse in ogni piazza o parco a recuperare ampiamente. Chi vive lungo le radiali, vicino alla Tangenziale o alle sedi ferroviarie, o nel cono di decollo dell’Aeroporto vive sopra la propria pelle questa pericolosa situazione, come quelli che vivono nelle zone porticate dove l’effetto canyon amplifica inquinamento chimico ed acustico

Il nostro cervello, sottoposto a simili trattamenti, si difende adottando automaticamente dei filtri che attutiscono l’effetto sensibile, ma non quello sul sistema neuro-vegetativo. In pratica abbiamo la sensazione che non il livello del volume ci disturbi ma solo la sua variazione: un aereo a bassa quota di notte può svegliare di soprassalto una persona procurandole un aumento pressorio ma non viene quasi percepito da 30mila tifosi urlanti durante una partita di calcio. Nel sistema neuro-vegetativo, però, questi palliativi non producono effetti ed i rischi suddetti incombono. Crediamo di essere assuefatti e di non correre rischi ma basta fare mente locale e paragonare il livello delle emissioni sonore nelle sale cinematografiche odierne con quello di 50 anno fa per far sorgere il dubbio che siamo diventati tutti sordi (ma l’Arpa non fa mai controlli?).

Certo il problema non pare di facile soluzione e le nostre abitudini consolidate nel bene e nel male. Però la OMS e la UE hanno emesso linee guida che, se attuate, possono migliorare la situazione, in primis una inversione di tendenza verso modalità di trasporto meno impattanti: agevolazioni per la pedonalità e la ciclabilità, sviluppo del TPL con mezzi elettrificati silenziosi e non localmente inquinanti, tram e filovie a seconda della domanda di trasporto, regole specifiche per i punti più sensibili, scuole ed ospedali. Da fare ce n’è, altri paesi sono partiti prima, basta copiarne le misure…

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“Scuola, i problemi che il referendum lascia irrisolti” l’Unità del 2- giugno 2013 paolo serra

scuola infanzia bologna

Un referendum ideo-illogico

Verso la metà degli anni 90, stanti le reiterazioni dei tagli ai bilanci degli enti locali perseguite dai vari governi nel vano tentativo di contenere il deficit pubblico, che continuano tutt’ora, gli amministratori del Comune di Bologna giunsero alla consapevolezza che non sarebbero più riusciti a mantenere l’altissimo livello complessivo dei servizi raggiunto nel corso del ventennio precedente, neppure applicando al massimo quel po’ di fiscalità locale concessa. Ovviamente i problemi più gravi sorsero nei settori dove il Comune surrogava le carenze del governo centrale: la domanda di scuola dell’infanzia non confessionale era, allora, completamente soddisfatta da risorse comunali. Le strade intraprese per non far mancare un servizio essenziale per le famiglie e per i bambini in età pre-obbligo furono le uniche possibili alternative a quella di far pagare il servizio agli utilizzatori, che a tutt’oggi, rimborsano solo il costo della mensa: trattare con il governo l’apertura di scuole statali, cercare di far entrare le scuole private nel circuito cittadino vincolandole ad adeguati standard edilizi e didattici. La prima operazione ha cozzato duramente contro le difficoltà del bilancio statale ed ha lasciato un ampio squilibrio nei confronti di tutte le altre città italiane, la seconda ha portato a risultati a macchia di leopardo, eccellenti ad es. a Lame e Corticella, non altrettanto in altre zone dove gli standard sono raggiunti chiudendo un occhio, o due, malgrado la revisione dell’accordo fatta nel 2008 che abbandonava la politica del contributo uguale per tutti per differenziarlo, non molto però, a seconda della bontà delle pratiche. Il risultato attuale lo conosciamo, non sarà il massimo dell’eccellenza, ma consente la risposta ad un bisogno che corre il rischio di rimanere inevaso in modo crescente. Ma, si sa, la realtà pragmatica non è mai pari alla idea concettuale che è perfetta di per se stessa. Per questo il referendum del 26 maggio è apparso illogico, o, quantomeno, incongruo. Le due poste di bilancio non sono in contrapposizione ma contribuiscono entrambe alla medesima finalità, sfugge la ragione per cui il Comitato dei garanti lo abbia convalidato e, per me, la mancata risposta dei cittadini è stata giusta.

 

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“ Prima di resettare o rottamare parliamo di politica”. Paolo Serra l’Unità 19 maggio 2013

PD: rottamare? resettare? meglio formattare.

Siccome “rottamare” è un vocabolo troppo violento, e più adatto ad una società industriale che post, ora va più di moda “resettare” che vuol dire azzerare il risultato deludente fornito da un pc, o altro marchingegno elettronico, e ricominciare da capo. Ma limitarsi a resettare il PD e ricominciare con gli stessi programmi già installati non è troppo limitativo? La colpa del cattivo funzionamento è stata solo dell’operatore o non piuttosto di un software difettoso? In tal caso inevitabilmente il risultato finale non potrebbe cambiare. Per dare risultati la cura dovrà essere ben più radicale. Il PD si deve “formattare”, azzerare tutta la cpu ed installare una nuova, e completa, versione dei programmi. La prima, infatti, conteneva il baco delle omissioni, ovvero evitava di affrontare i problemi rischiosi: diritti del lavoro, equità fiscale, diritti civili, etc., per puntare sulle personalizzazioni, la cosiddetta “contendibilità”. E’ stata un scorciatoia, dovuta anche alla ragione di dover fare i conti con la cosiddetta “società dello spettacolo”, dove i media sono passati da cercatori e fornitori di notizie ad inventori di  suggestioni, e così anche la politica, che dovrebbe coniugare il pensiero con le azioni, ha iniziato a diventare immagine e suggestioni. Il PD sembra nato nel mondo della fisica quantistica, sottoposto al principio di indeterminazione di Heisenberg, dove se riesci ad identificare una idea politica non puoi sapere chi ne sia il reale concretizzatore mentre se identifichi un leader non puoi saperne le reali idee politiche. In effetti, prima di contendere una cosa, non bisognerebbe definirla con un po’ più di precisione in modo di evitare che il mitico intercalare “ma anche” diventi nella realtà un paralizzante “ma neanche”? Chiarire, anche con referendum fra gli iscritti,  i concreti obiettivi del PD nei campi minati di una fiscalità più equa e moderna, dei diritti civili, di quelli del lavoro, e schierarsi unanimi sul campo per conseguirli, questo il compito del prossimo congresso, che non si capisce perché non si svolga immediatamente (o forse si capisce anche troppo bene…).

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“Proposte concrete per ridestare il Pd dal torpore” Paolo Serra l’Unità 11 maggio 2013

Insiemi immaginari, insiemi reali

 In matematica, un insieme è una collezione di oggetti che hanno qualche caratteristica comune e che è a sua volta considerata un oggetto. Un servizio da tavola è un insieme di piatti. Un partito  politico un insieme di cittadini che hanno idee ragionevolmente omogenee (scodelle, piattini, piatti da portata, ciotole, ma sempre piatti sono). I fatti susseguenti alle elezioni del 24 febbraio hanno dimostrato che il PD non è un insieme bensì la sommatoria di due insiemi affiancati. L’uno, insieme A,  composto da iscritti ed elettori, l’altro, insieme B, da eletti e dirigenti, ciascuno dei quali quando dice “noi” si riferisce ad un PD diverso, con idee diverse ed obiettivi diversi. La ricerca della fiducia ad un governo al Senato e la elezione del  nuovo Presidente della Repubblica hanno impietosamente mostrato la realtà. Ogni azione dell’insieme B, a sua volta composto da almeno tre sottoinsiemi portatori di interessi diversi (ex Dc-Popolari-Margherita, ex PCI-PDS-DS, rottamatori-resettatori), è stata contestata dall’insieme A, composto di cittadini che credono nei diritti, nel lavoro, nell’equità, quindi molto più omogeneo e disinteressato. Quello che è successo è noto, non si è riusciti ad eleggere un nuovo Presidente della Repubblica e non si  riusciti a formare un governo di “Cambiamento” malgrado la presenza in Parlamento di una larga maggioranza di forze che, in campagna elettorale, i cittadini hanno identificato come riformatrici, caso unico nella nostra storia, e, temo, irripetibile. Ora l’insieme immaginario PD andrà a congresso ma se continuerà a discutere di topologia (cercando l’eternamente sfuggente punto di unione fra centro e sinistra) o di demografia (puntando al solo ricambio generazionale) senza chiarirsi le idee formando proposte omogenee, costi quel che costi, anche con referendum fra gli iscritti, sui temi che interessano i cittadini, quelli sopra accennati, non riuscirà mai a diventare un insieme reale. Dalle omissioni e dai “ma anche” abbiamo visto cosa è uscito…

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